Questo breve racconto della mia storia accademica serve solo a spiegare la natura del mio odio personale, oltre che politico, per l’istituzione per la quale lavoro. Ma chiariamo subito una cosa: il mio percorso non è frutto di disperazione o di mancanza di alternative, ma di scelte convinte. Prima di intraprendere questa "carriera", lavoravo infatti come funzionario presso il Ministero dell’Economia e delle finanze, sotto la guida di Mario Draghi, oggi Presidente della Banca centrale europea. Un lavoro rispettato, che svolgevo in modo tutto sommato rispettabile. Sede di lavoro: Roma, la mia città, con viaggi in business e alberghi a quattro stelle per le missioni fuori sede.
Ma io con l'università avevo un conto in sospeso. Contro tutti i suggerimenti dei colleghi e degli universitari stessi sono dunque andato per la mia strada. Ovviamente in salita.
Lo so che le autobiografie sono noiose e interessano solo chi le scrive. Ma se racconto qualche episodio della mia vita, non è certo per egocentrismo, né perché creda che il mio caso sia rappresentativo delle storie di altri colleghi universitari. Al contrario, le persone che io forse potrei rappresentare sono generalmente bloccate alle porte d’ingresso dell’università.
Ma allora che importanza può avere un caso isolato? Secondo una concezione diffusa, sono i grandi numeri che contano, non i casi individuali. Ebbene, è proprio in virtù dei grandi numeri che mi permetto di raccontare la mia storia. Se è vero che l’esperienza insegna qualcosa, credo che in materia di procedure concorsuali potrei essere tranquillamente fatto professore honoris causa. Ho infatti maturato una lunga esperienza di concorsi universitari, ovviamente sempre dal lato dei candidati, certamente superiore a quella di qualsiasi commissario di concorso e, come d’altronde mi è accaduto proprio in sede concorsuale, in questa materia posso dare lezioni anche ai più anziani baroni universitari.
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Secondo la Costituzione italiana, l'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni avviene per concorso. Molti universitari trovano questo principio limitativo della loro autonomia e del loro diritto di gestire in piena libertà il reclutamento dei colleghi, come avviene nei paesi in cui l'autogoverno universitario rende conto solo al potere economico. Per loro il concorso è un'inutile lungaggine burocratica, una noia formale e niente più. Mille motivi giustificano questa posizione, sia tra gli universitari di ruolo, sia tra quelli che vorrebbero entrare a farne parte: la specificità della scienza, la riproduzione delle scuole di pensiero, il lavoro di squadra, il progresso della civiltà. In attesa di un'eventuale riforma costituzionale, tuttavia, per questa noia formale ci devono passare tutti, dal borsista al professore di prima fascia. Accompagnati in genere da un manipolo di colleghi, comprendente il compagno di squadra precettato per garantire un'apparenza di concorrenza, il cooptando inviato dal proprio protettore a farsi le ossa in attesa del "suo" concorso, qualche ingenuo e, ogni tanto, l'aspirante guastafeste.
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Avendo rifiutato la logica baronale per questioni morali e di coerenza politica, ma non avendo rinunciato al desiderio di entrare anch’io nel circolo dei privilegiati pagati per pensare, non ho potuto fare altro che giocare una strategia basata sui grandi numeri. Dopo aver collezionato abbastanza titoli (laurea con lode, master a Cambridge, dottorato di ricerca, scuole di approfondimento di ogni tipo e qualche pubblicazione di rispetto), ho iniziato a fare a tappeto tutti i concorsi per ricercatore. Sono andato su e giù per l'Italia secondo una tabella di marcia scandita dalla casualità con cui i diversi atenei bandivano i posti vacanti. Sono anche salito diverse volte sugli inutili gradini più bassi del podio, dove ho avuto il privilegio di ascoltare quelle belle parole di gratificazione e incoraggiamento che i commissari riservano ai candidati che loro stessi decretano perdenti.
Di atleti che si piazzano sempre, ma non vincono mai, lo sport ne conosce molti. Ma che ci potevano fare gli altri motociclisti se Valentino Rossi s'iscriveva a tutti i gran premi? Nel mio caso, però, di Valentini Rossi me ne sono visti sfilare davanti tanti, tutti diversi, e io sempre lì a un soffio da loro.
Finalmente, un giorno di fronte ad un’irregolarità formale veramente grave ho potuto fare un ricorso al Tar (il Tribunale Amministrativo Regionale) e l’ho vinto (per l’esattezza, a causa dell’impertinenza dei commissari che non volevano seguire le indicazioni del tribunale, ho dovuto fare due ricorsi, con aggravio di costi e allungamento dei tempi della mia assunzione in servizio).
Ovviamente i più illustri cattedratici della mia nuova sede di lavoro hanno sentito il dovere morale di occuparsi personalmente della mia accoglienza e da allora continuano a riservarmi attenzioni veramente speciali.
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Ma restiamo ai concorsi. Da buon ricercatore ho cominciato a fare i concorsi per professore associato, sperando anche in questo caso di incontrare commissari così incapaci da commettere errori formali nella redazione dei loro insindacabili verbali. Nel frattempo, però, le norme che disciplinavano i concorsi sono cambiate. La norma che mi aveva consentito di vincere al Tar è stata abolita e la strategia dei grandi numeri è stata vietata.
Non più voti e valutazione numerica dei titoli e delle pubblicazioni (grazie ai quali ero riuscito ad inchiodare la commissione), ma giudizi qualitativi e aggettivi qualificativi, assai più difficili da impugnare in tribunale. Il candidato predestinato non ha titoli, né pubblicazioni significative? Senza bisogno di supervalutare quel poco che ha, basterà dire che la sua ricerca è originale, che le sue potenzialità sono straordinarie e che il suo profilo scientifico è da premio Nobel. E a questo punto sta all'eventuale ricorrente convincere il giudice amministrativo che il proprio profilo è in realtà superiore. Ma come si fa a dimostrare che un candidato brillante, originale e con ottime potenzialità è meglio o peggio di un candidato rigoroso, critico e dal profilo eccellente? I tribunali amministrativi non sono mica Accademie della Crusca.
Accanto a questo nuovo strumento di blindatura anti-ricorso, il legislatore ha poi voluto limitare la partecipazione stessa ai concorsi, introducendo un limite massimo al numero di concorsi che un individuo può fare durante un anno solare: quindici per i concorsi a ricercatore, cinque per quelli a professore. Generalmente anche le norme più infami sono verniciate di qualche contenuto morale, economico o politico, che le facciano apparire giuste, efficienti o socialmente desiderabili. In questo caso, il Parlamento (costituito per il 12 per cento da docenti universitari) ha invece obbedito ai desideri degli accademici senza mistificazioni: meno candidati ai concorsi, meno noie per la commissione. Una scelta legislativa apparentemente suicida per uno Stato che deve reclutare i suoi dipendenti: invece di ampliare al massimo la rosa dei candidati nella ricerca dei migliori, si preferisce restringerla, a difesa dei prescelti per via cooptativa. Per legge, ai concorsi bisogna essere in pochi. Ma, soprattutto, si devono proteggere le commissioni dai candidati "scomodi", tra cui si annidano i cacciatori di ricorsi amministrativi. Il tutto ovviamente in nome del prestigio e dell'eccellenza delle nostre università.
Dell'importanza della prima svolta normativa non si è accorto praticamente nessuno, se non i cacciatori di ricorsi, che cito sempre, ma che forse esistono solo nella mia testa. Per il candidato che non sta là per vincere, ma per mostrare al suo referente di essere pronto per il "suo" concorso, un verbale a chiacchiere va più che bene. E va ancora meglio, ovviamente, per chi il concorso lo deve vincere veramente. Le chiacchiere al posto dei voti ostacolano solo chi i verbali li studia per impugnarli in tribunale.
Ma nemmeno la seconda innovazione ha sollevato reazioni particolari tra gli aspiranti universitari. Che gliene importa infatti ai portaborse assoggettati alla logica cooptativa del tetto al numero di concorsi? Loro di concorso ne fanno uno e lo vincono. Al limite, come dicevo, ne fanno qualcuno di allenamento, se proprio stanno messi male. Il vincolo è maledettamente operativo solo per i cani sciolti. Così, ho ridotto un po’ i miei viaggi di piacere in giro per l’Italia, con buoni risultati per i commissari di concorso e per il mio fegato.
Ormai, tra concorsi per ricercatore (con tre prove su tre giorni distinti) e per professore (due prove su due giorni) ho superato la mezza piotta (quota cinquanta). Senza contare i giorni passati in treno, praticamente per quattro mesi e mezzo, ogni mattina, festività incluse, ho dovuto affrontare l'insindacabile giudizio della commissione di turno, pronta a liquidarmi come una semplice noia formale. Quando lo Stato mi ha rubato dodici mesi di servizio militare, ho provato a imboscarmi in ogni modo. Questi quattro mesi e mezzo invece glieli ho regalati io, senza che nessuno li volesse.
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Nel frattempo, ho pensato che forse le mie convinzioni politiche, che non nascondo affatto nei miei lavori scientifici, potessero contribuire a giustificare l’ostilità dei commissari di concorso nei miei confronti. In effetti, un marxista dai comportamenti anarcoidi che, come metodo di ricerca scientifica, vuole criticare tutto, compresi i meccanismi di produzione della scienza e della cultura, non può certo avere vita facile in un sistema dominato dal pensiero unico liberista, secondo il quale l’economia si studia e basta, ma non si critica.
La legge dei grandi numeri, tuttavia, mi ha fatto incontrare anche commissioni più aperte all’eterodossia economica. In questo modo ho potuto constatare che, nei concorsi universitari, i baroni rossi non sono affatto rossi, sono solo baroni. Il colore rosso vale unicamente fuori dell’università, quando si deve prescrivere ad altri come organizzare le cose. Ma sul fronte interno, la necessaria missione di resistenza scientifica contro le scuole dominanti, che i baroni rossi si auto-assegnano, non consente loro smagliature nella blindatura dei concorsi. Così mi sono passati davanti anche i peggiori portaborse rossi, per questioni di autodisciplina politica. E negli insindacabili verbali, fatti a chiacchiere, sono così scomparsi i potenziali premi Nobel di cui parlavano i commissari dell’economia ortodossa, per lasciare il posto a nuovi sicuri premi Lenin, se solo questo premio esistesse ancora.
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L’umiliazione più grande però me la sono cercata tutta da solo. Siccome il mobbing cominciava un po' a pesarmi, con una grossa molletta al naso, sono andato io a cercare i baroni rossi, compresi quelli un po’ scoloriti, per chiedere asilo accademico. Mi sono rivolto in particolare ai docenti di quelle squadre universitarie che nel farmi fuori ai concorsi avevano dovuto riconoscere il mio ruolo di candidato "scomodo", cioè bravo. Forte dei torti subiti, ho chiesto dunque una riparazione almeno parziale, un trasferimento in qualsiasi sede che non fosse quella dei miei mobbizzatori.
Una bella contraddizione morale: dopo aver subito le ingiustizie dei concorsi truccati, ero io ora a chiedere di truccare un concorso (anche i trasferimenti avvengono per concorso). Ben inteso, ho tentato di salvare la mia coscienza nascondendomi dietro la formula: “nessuna blindatura, voglio solo un concorso aperto”. Questo dimostra tristemente che anch’io stavo lentamente diventando un vero universitario e, come i miei nemici commissari di concorso, assegnavo importanza solo alle questioni formali.
Ma i processi di trasformazione dell’individuo prendono tempo. Così, con quel poco di rigore logico che mi rimaneva, non ho potuto mancare di vedere che se i meccanismi universitari prevedono che i posti si creino solo quando c’è già un candidato “papabile”, come si dice in gergo (il quale poi, guarda caso, diventa sistematicamente papa), il concetto stesso di concorso aperto non ha nessun significato. Nella sostanza, quindi, nonostante le attenuanti che mi auto-concedo, ero e rimango consapevole di aver oltrepassato anch’io la frontiera dell’integrità morale.
Il mio processo può riguardare però solo le intenzioni. Infatti, mentre io stavo ancora lì a dibattermi con le mie pesanti questioni logico-morali, le baronie cui mi ero rivolto mi hanno prontamente offerto le loro risposte inoppugnabili. I baroni rossi più progressisti mi hanno spiegato che il mio trasferimento nella loro sede avrebbe turbato i delicati equilibri interni tra "scuole di pensiero", faticosamente raggiunti attraverso grandi manovre diplomatiche. I baroni bianco-rossi, legati alla tradizione catto-comunista, evidentemente più catto che comunista, si sono invece indispettiti del fatto che io stessi lì a testa alta a reclamare giustizia, e non a ginocchia piegate a chiedere l’assoluzione per i miei peccati (di cui ovviamente vado invece fiero). Infine, altri grandi rivoluzionari, quelli che scrivono sui giornali a nome della sinistra radicale, sempre acuti quando si tratta di criticare il mondo, ma totalmente incapaci di criticare se stessi, hanno pensato di darmi una lezione sui meccanismi di funzionamento dell’università: insomma mi hanno invitato a trovarmi un barone cui portare le borse, prima di avanzare rivendicazioni. E di fronte ad argomentazioni di questo tipo rimane ben poco da controbattere.
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Ho pensato allora che il mio look punk-hardcore potesse contribuire ad alimentare le discriminazioni. Avendo ormai rinunciato alla mia integrità morale, ho provato dunque a levarmi anche i miei gingilli più cari, ho lasciato crescere i capelli anche sui lati della testa e ho tentato goffamente di assomigliare agli altri aspiranti universitari.
Il risultato di questo esperimento controllato, tuttavia, non mi permette di concludere che i punk ricevano discriminazioni particolari nei concorsi universitari.
Non insisto su questo tasto perché so che non gliene importa niente a nessuno, meno che mai ai punk. Lo sappiamo tutti che il punk è morto con gli anni ottanta. Resta il fatto, tutto personale, che appena ho deciso che l'esperimento poteva considerarsi terminato, ho ripreso di corsa macchinetta e anfibi, come un sub che dà la prima boccata d'ossigeno dopo l'apnea.
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In questo lungo processo di concorsi, ricorsi e trasformazioni interiori ed esteriori, l’adrenalina pre-concorso e la bile post-concorso hanno lentamente lasciato il posto alla calma riflessione. La sera all'ostello, tra una prova e l'altra del concorso, non ce la facevo più a studiare, a prepararmi per delle interrogazioni fasulle davanti a dei commissari distratti, a cercare strategie per dare il meglio di me in quel poco tempo in cui ci si gioca un posto di lavoro. Con il libro aperto in mano, il mio pensiero andava in tutt'altre direzioni.
Sulla mia pelle, ho lentamente preso atto della più grande ovvietà, di cui però gli scienziati sociali non vogliono occuparsi: mentre ci insegnano che tutte le relazioni sociali si devono flettere al volere del mercato e della concorrenza, è proprio il feudalesimo universitario, con la sua impermeabilità a ogni espressione di critica radicale e di devianza, a garantire la riproduzione culturale e ideologica del capitalismo.
Ho dunque iniziato a studiare seriamente le funzioni economiche e sociali dell'università, il suo asservimento al capitale, il ruolo politico del corpo baronale, le origini storiche della cooptazione e i rapporti di potere che genera e ho compiuto ogni sforzo per socializzare la mia analisi, la mia critica e la mia lotta. Ho scritto libri e articoli, partecipato ad assemblee, manifestazioni e occupazioni, ho subito la repressione dello stato e quella del mondo accademico, nella piena consapevolezza delle contraddizioni che incorpora la mia posizione: quella di universitario antiaccademico. Oggi, nel movimento studentesco, mi chiamano scherzosamente il Barone. Queste stesse righe, inizialmente rivolte solo a me stesso, sento ora il bisogno di condividerle. Non perché ci tenga a farmi conoscere, ma perché voglio dimostrare che, anche in ambiente universitario, nonostante tutto, esiste la via della lotta.
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Sono convinto che quando si raccontano le storie è più bello fare nomi e cognomi. Ma un lungo elenco di nomi di persone e di sedi universitarie servirebbe solo a fare uscire puliti gli altri, quelli che nonostante i grandi numeri non ho mai avuto il dispiacere di incontrare. Senza parlare poi del fatto che il problema non può certo essere confinato al settore scientifico-disciplinare di “Economia politica” del quale mi occupo, ma è invece generale e riguarda l’università come istituzione.
Ma non ho certo paura delle rappresaglie, perché le subisco già. Il peccato originale (il ricorso al Tar) ormai l’ho commesso e reiterato e spero solo di poterne commettere altri ancora (scomodando magari pure qualche giudice penale). E spero anche che altri abbiano la fortuna che ho avuto io di riuscire ad avere giustizia in un sistema che non tollera intrusioni esterne, ma che arruola persone così arroganti e incompetenti da lasciare aperte le porte dei tribunali. Ma soprattutto spero che le forze politiche veramente rivoluzionarie che oggi lottano per un altro mondo possibile trovino la forza per liberare il sistema universitario da baroni e portaborse, abbattendo questo sistema feudale, incapace di accettare idee e persone che non rientrano negli schemi precostituiti del mondo esistente. Perché se è vero che un altro mondo è possibile, allora un’altra università è necessaria!