Lettera di un padre a un figlio

Mio padre, Ivan Palermo, è una delle persone di cui ho più stima al mondo. Giornalista scomodo, finito in Rai a subire il mobbing aziendale, in pieno processo di mercificazione dell’informazione, ma rimasto sempre coerente e capace di strappare una lacrima, un sorriso e 10.000 riflessioni con ogni suo programma, almeno finché ha potuto esprimersi. Da tempo è in pensione e quel pozzo di conoscenze storiche e spirito critico è ormai patrimonio delle poche persone care che gli rimangono.

 

Non sono mai mancate le occasioni di dialogo tra noi — anzi, mio padre è sempre stato un papà molto presente, anche se mai invadente — ma una volta volle scrivermi una lettera. 

 

Me la scrisse ovviamente con la sua vecchia macchina da scrivere, avendo lui una calligrafia indecifrabile anche agli occhi del farmacista più sperimentato, e non avendo mai avuto simpatia per il computer. Si tratta evidentemente di una lettera privata, di un padre a un figlio, che si vogliono bene, si conoscono a fondo e si stimano reciprocamente. 

 

Nelle mie vicende conflittuali col mondo universitario e, in particolare, con l’Università di Brescia, mi riviene spesso in mente. Proprio perché, nonostante la condivida appieno, fatico ancora ad agire di conseguenza. Come dice lui stesso, io non sono Lenin e non ho masse popolari da guidare alla conquista del palazzo d’inverno. E aggiungo io, in tutta umiltà, ma citando Marx mentre finge di citare Dante, in fondo nella vita sono stato capace di fare una sola cosa: seguire il mio corso e lasciar dir le genti!

 

Il problema, papà, non è più la paura di sporcarmi le mani ma il fatto che le mani me le hanno legate dietro la schiena. E quando le cosche mafiose si scontrano, non si apre più nessuno spiraglio per me; al contrario, si ricompattano proprio sulla mia pelle. Disgraziatamente, sono ormai diventato un maledetto elemento di coesione baronale. 

 

Non sto più nemmeno nell’angolo, sto semplicemente fuori dalla porta. La carriera bloccata in tutte le università d’Italia, i progetti intralciati, i diritti calpestati e poi la cosa più brutta, cui mi sto quasi abituando: non mi fanno insegnare. Il rapporto con gli studenti l’ho perso e gli unici studenti che mi rimangono ormai non sono più studenti. Per fortuna, ci sono ancora i compagni.

 

Avrei voluto pubblicare la lettera del Magnifico Barone, con cui censura anche questo mio ultimo tentativo di esistere all’interno di un’istituzione che ha una missione storica … che svolge al contrario. Ma poi ho pensato che è molto più bella la tua di lettera.

 

***

 

Roma 18 settembre 2005

viale Cortina d'Ampezzo 57

 

Mio caro Giulio, 

 

credo che tu abbia ampia consapevolezza di aver scelto di lavorare in un ambiente altamente mefitico: l'Università di Brescia — dove sei capitato per caso — è infatti la perfetta e compiuta proiezione su scala ridotta della grande istituzione universitaria nazionale. Qui vigono le stesse norme e gli stessi principi delle cosche mafiose (naturalmente senza arrivare all'omicidio) con l'obiettivo di conquistare spazi di potere sempre più ampi, probabilmente anche in buona fede, con la convinzione di fare il bene dell'umanità, ma operando sempre con i metodi di cosa nostra. E così, in nome della presunta neutralità della scienza, la ricerca viene indirizzata seguendo gli interessi e gli espliciti desiderata della grande industria e dei grandi gruppi finanziari, in ogni campo: sia quelli più avanzati, come biologia, biotecnologia, informatica, comunicazione ecc; sia quelli più tradizionali, come meccanica, economia, banche, assicurazioni. Numerose e complesse operazioni, tutte presentate come servizi offerti alla comunità, che necessitano però di un mondo di operatori accademici compatto ed omogeneo. Di qui la necessità di una rigida e occhiuta selezione basata su parametri sperimentati, a prova di ogni imprevisto: rapporti parentali, rapporti di assoluta e provata fedeltà, accettazione di una rigida gerarchia, diritto di supremazia del boss, dovere di sudditanza del sottomesso.

 

Per un intruso come te, non disposto ad accettare le regole di questo gioco e pronto a intralciarle quando se ne presenta l'occasione, l'unica possibilità di sopravvivere senza troppi danni e malanni è quella di scavarsi una nicchia e sperare di essere dimenticato dall’organizzazione. Oppure sperare che, per ragioni di potere, la pax mafiosa che ha retto per un certo periodo si rompa e si apra una guerra di bande. Da quanto mi ha detto Marisa è ciò che sta avvenendo a Brescia e addirittura che uno dei capibanda si sia fatto vivo con te per chiedere il tuo sostegno; e che tu per ragioni di astratta coerenza etica non sia disposto a scendere a patti con persone che non stimi. Non condivido assolutamente questa posizione, la giudico rinunciataria e autolesionista, e cerco di spiegarti le mie ragioni ricorrendo a un esempio storico, che certamente conosci.

 

Allo scoppio dei primi moti che avrebbero portato al disfacimento dell'impero zarista, Lenin per tornare in Russia accettò senza esitazione un pesante compromesso che gli veniva offerto dall'ambasciatore tedesco: attraversare la Germania sul vagone piombato di un treno, con il consenso del kaiser e la sua promessa di non farlo arrestare. Lenin, che non era uno sprovveduto, sapeva da che cosa era determinata questa “generosità”: la convinzione tedesca che la sua predicazione rivoluzionaria avrebbe agevolato la disgregazione dell'esercito russo e quindi facilitato la vittoria tedesca. Ma Lenin aveva un obiettivo da raggiungere: trasformare la rivolta in rivoluzione e creare il primo embrione di uno stato socialista.

 

So bene che tu non sei Lenin e non hai masse popolari da guidare alla conquista del palazzo d'inverno; ma anche tu hai un obiettivo: lavorare ai tuoi progetti di ricerca, difendere i tuoi spazi di autonomia, incidere con il tuo insegnamento sugli studenti offrendogli strumenti critici per conoscere e affrontare la realtà, affermare il tuo diritto a operare nell'università conservando la tua autonomia, senza assimilarti né tanto meno omogeneizzarti, ma neanche a essere visto come un corpo estraneo di cui liberarsi in ogni modo. Hai scelto di vivere in una realtà estremamente difficile: ora hai la possibilità di prendere parte a una battaglia che, se anche non è la tua, ti permette di liberare il tuo dipartimento da persone che ti hanno ostacolato in tutto e ti hanno negato i tuoi diritti professionali: io non avrei esitazioni a farla, pur essendo consapevole che molti compagni di percorso non sono migliori di quelli che combatti. Ma in questo caso tu parti in vantaggio: sei tu infatti — anche se loro non ne sono consapevoli — a strumentalizzarli, affermando la piena legittimità della tua presenza nell'università di Brescia, con le tue idee, i tuoi progetti, le tue ricerche, le tue aspirazioni, i tuoi diritti. Non tirarti indietro e non perdere questa occasione: schierati e affronta la battaglia.

 

Un bacio fortissimo ai miei nipoti, un abbraccio a te e Sindie.

 

Tuo padre (a penna: papà)

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